Il Santuario di Montevergine invita i visitatori alla riflessione sui veri valori della vita

Siamo a metà dell’autunno ed oltre le sagre con le scampagnate in cerca di gusto e buona cucina, concediamoci un momento di riflessione su di noi e gli altri, sulle persone che ci circondano e sui valori sociali, una istanza di raccoglimento e di sempre utile ricerca interiore, fra i tanti problemi che, quotidianamente, ci avvolgono in una società preda, da anni, di una profonda crisi economica e morale.

Questa ricerca di approfondimento ci porta nell’alto degli aspri monti dell’Irpinia, per raccontare la storia di San Guglielmo eremita e del culto mariano che portò circa mille anni fa alla edificazione di una Chiesa, poi diventata sempre più importante Abbazia, fra le prime sei d’Italia.                                                         

Parliamo della storia del Santuario di Montevergine, un millenario e sempre più celebrato luogo di culto che si erge a poca distanza dall’abitato di Mercogliano nell’alta provincia di Avellino, facente parte dell’ambito territoriale dell’alto Calore, oggi ben raggiungibile con auto e moto, dalla viabilità locale con l’autostrada distante pochi chilometri, ma un tempo solo con faticose ascese a piedi o a cavallo, se non a dorso di mulo.                                                                                                                                   

In questo luogo difficile, ove per l’altitudine ed il clima non sono possibili coltivazioni e fino ad epoca recente, al XIX secolo, non si era insediata una comunità abitata, giunse, dopo il 1.100, un monaco eremita, reduce da mille itinerari svolti fra l’Europa ed il vicino Oriente, in specie da Santiago de Compostela e poi da Gerusalemme, si chiamava Guglielmo e probabilmente era nato nell’odierna Vercelli. Colui che poi sarà innalzato alla gloria degli altari come San Guglielmo da Vercelli, fondatore del Santuario, anima di un ordine monastico dedito al culto della Madonna pienamente riconosciuto poi anche se solo nel 1879 dalla Chiesa di Roma.                                                 

Il Santo giunge lì per caso, viandante, in quel territorio aspro, inospitale, dove sente però fortissima una vocazione, quasi un ordine divino: “fermati ed opera là”. Si ritira in totale solitudine, dedito alla meditazione trascendente in piena armonia con la natura, la flora e la fauna locale vivendo di poco, un’esistenza difficile in alta quota su una montagna difficile quale l’odierno Monte Partenio spinto da fortissima vocazione. Tanto che si tramanda che: “su quell’alta montagna, a circa 1.3000 metri di quota, nel luogo di una piccola conca creatasi dall’incontro di due opposti declivi del monte, si fece costruire una piccola cella, una costruzione tutta di pietre locali. Ove, per un anno intero, rimase in completa solitudine dedito esclusivamente alla contemplazione del creato ed a contatto solo con gli animali della fauna selvatica”.

All’epoca, lupi, volpi ed anche orsi, all’epoca presenti, e che pur famelici mai insidieranno il monaco durante il suo solitario romitaggio ed anche per questo la sua fama grandemente si diffuse, ben oltre quel territorio, iniziando ad attirare sempre più fedeli e numerosi altri monaci. Finchè, nel 1.126, venne eretta in quel luogo una Chiesa, il primo monastero del Monte Vergine, consacrato al culto della Madonna che nei secoli successivi, dopo la morte del Santo avvenuta nel 1.142, vedrà sempre accresciuta la sua fama, tanto da divenire uno dei luoghi di devozione e pellegrinaggio più importanti del Regno meridionale, consacrato anche come Abbazia. Attualmente, nelle forme costruite nel 1.952 prevedenti notevole dimensione del corpo di fabbrica in una pianta romanica classica.                             

Un luogo da visitare, con rispetto e che offre sensazioni profonde. A presto, per un altro itinerario campano.

Giorgio M. Palumbo

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