Incontrarmi, sentirmi e soprattutto sfogliare l’ultratrentennale album dei ricordi che ci accomuna, è una consuetudine cementata col tempo. Questa volta, però, la conversazione riguarda la sua ultima pubblicazione: Come Un Sogno Rapido E Violento. Gabriele d’Annunzio e Napoli (1891-1893).
Ringrazio Tobia Iodice che mi accorda sempre il privilegio di leggere quasi in anteprima i suoi lavori editoriali che riguardano il Vate.
Allo stesso tempo lo accuso pubblicamente di avermi gabrielizzato!
Per colpa sua sono diventato d’Annunzio dipendente.
Sono anni ormai che mi ha fatto appassionare a questo gigante della letteratura: sullo scrittore e le sue conquiste, sulle quali mi astengo, per invidia, dall’esprimere pareri.
Forse, anzi sicuramente, lo scrittore e l’uomo sono inscindibili.
L’intervista che segue è solo una parte della conversazione giacché, per carità cristiana, ho tralasciato divagazioni e pettegolezzi di varia natura.
Dopo “Tutte Le Sfumature Della Rosa” e poi “I Violenti”, sei nelle librerie con: Come Un Sogno Rapido E Violento. Con questo tuo lavoro chiudi la trilogia su d’Annunzio?
Mah, non so. Su d’Annunzio c’è ancora tanto da scrivere. Tanti aspetti della sua vita ancora da chiarire, da raccontare. Non lo so. Non faccio progetti. Molto, ovviamente, dipenderà anche dalla risposta dei lettori a questo mio ultimo lavoro.
Ho iniziato a leggerlo dalle ultime pagine; dalla Bibliografia, per essere precisi. Quanto tempo ti ha preso la ricerca?
Tra la lettura dei testi e ricerche in archivio, sono trascorsi circa cinque anni.
Hai consultato un’infinità di Giornali, Riviste, Saggi e volumi vari: c’è qualcos’altro che non è stato riportato in questo libro, magari delle ulteriori chicche che potranno essere edite in futuro?
La prima stesura occupava, impaginata, oltre 350 pagine. Nella versione definitiva siamo arrivati a 256. Per questioni di leggibilità ho cancellato quasi un centinaio di pagine, all’interno delle quali erano riportate molte curiosità sulle poesie che Gabriele compose a Napoli. Chissà, magari un domani potranno confluire in un lavoro dedicato solo alla sua produzione in versi all’ombra del Vesuvio.
Ne è uscito pure qualche aneddoto inedito, che hai riportato?
Assolutamente sì! In una piccola e sconosciuta cronaca teatrale ho scoperto che d’Annunzio, una sera, dopo aver assistito ad uno spettacolo che aveva per protagonista Pulcinella, si scagliò contro l’abitudine – a suo dire tutta partenopea – di attardarsi ancora sul teatro in maschera e di non aprirsi a quello moderno. Insomma, meditò di “uccidere” Pulcinella.
Il sogno è stato rapido e violento. Perché?
La frase, bellissima, la si trova in una lettera al suo amico pittore Francesco Paolo Michetti del 1893. Tra i due c’erano state delle incomprensioni e d’Annunzio, ad un certo punto, messo da parte l’orgoglio, gli scrisse, ricordando con lui i primi tempi, assai felici, del soggiorno a Napoli, e la differenza con il momento assai triste che stava invece allora vivendo. Una trasformazione in peggio, che gli era parsa, appunto, «come un sogno rapido e violento».
Si è detto e scritto, quindi è storia, delle inelencabili conquiste del Vate. Non tutte, però, furono ammaliate dalle lusinghe della sua arte linguistica. Una fra tante: Tamara De Lempicka. Mi verrebbe da dire: questa sì che è una notizia!
Attento però. Per quel che riguarda la grande pittrice polacca stiamo parlando di un d’Annunzio ormai anziano, decrepito, devastato nel fisico dall’abuso di cocaina. Gli anni cui fa riferimento il mio libro lo vedono invece implacabile “trionfator di talami”, come lo chiamava Madame Polozow, una nobildonna russa di stanza a Napoli che fu sua grande amica e che, tra l’altro, lo avvicinò all’esoterismo e al paranormale.
Una curiosità che mi colpisce nel d’Annunzio è la sua invidiabile capacità di scrivere seppur accerchiato da creditori e nonostante le immancabili cambiali da onorare, senza mai tralasciare nulla al caso, o buttato lì pur di pubblicare. Una virtù unica, direi…
A dispetto di quanto si crede, d’Annunzio fu un assoluto “sacerdote” della parola. E lavorò sempre come un matto, come un disperato. Certamente per sostenere il suo tenore di vita costantemente al di sopra delle sue possibilità, ma soprattutto perché il suo rispetto, il suo amore carnale, sensuale verso la parola non ammetteva distrazioni o “ferie”. Come tutti gli amori che si rispettino andava coltivato, innaffiato ogni giorno, indipendentemente da ciò che intorno gli accadeva.
La “Soffio Di Satana”; ovvero l’Alfa Romeo 6C Turismo, appartenuta a Gabriele d’Annunzio, è stata venduta all’asta per 430mila Euro. Tra cimeli, ristampe e memorabilia il Vate, oggi più che mai, oltre che calamitare l’attenzione generale, continui a far cassa. Consentimi l’accostamento, ma sembra di trovarsi di fronte ad una Rock Star.
E la cosa gli sarebbe piaciuta da morire. Nulla lo avrebbe reso più felice di sapere che la folla dei suoiadoratori continua ad essere numericamente nutrita anche ottant’anni dopo la sua morte. E pensa, senza che mai nessuno sia riuscito a carpirne il segreto più profondo. Ma d’altro canto era lui stesso a scrivere che: «Tutto ciò che in me v’è di più segreto e profondo nessuno riuscirà mai a comprenderlo».
Tanto si è detto e scritto sulla “Bella Romana”. Le appassionate e incandescenti lettere di Gabriele a lei dirette non gli sono mai state restituite. Si sarebbero persi o andati distrutti dei capolavori?
Assolutamente sì. Le 1090 lettere che scrisse a Barbara Leoni, e che io ho in parte antologizzato nel mio precedente libro «Tutte le sfumature della rosa», sono in sé un romanzo. Un vero, intenso romanzo d’amore. E non esagero nel dire che forse si tratta dell’opera più sincera che Gabriele abbia mai scritto.
Soffermiamoci un attimo sul d’Annunzio musicista. La sua ‘A Vucchella, un successo mondiale ed evergreen, con musica di Francesco Paolo Tosti: sappiamo effettivamente a chi la dedicò?
Stando ad un autografo apparso qualche mese fa sul mercato antiquario, la bocca “appassiulatella” citata nei versi sarebbe quella di Maria Gravina, la principessa che conobbe a Napoli e dalla quale ebbe la sua adorata figlia Renata. A mio avviso, però, e fidandomi sullo studio delle lettere alla Leoni, sono convinto che in quei versi tanto sensuali e appassionati ci sia molto anche di Barbara.
Sempre dal tuo libro, apprendo che, in quel periodo, era più apprezzato in Francia che in Italia. Leggo che l’illustre Amédée Pigeon, in un suo articolo su una celebre Revue, seguitissima e molto stimata nei salotti transalpini e non solo, lo consacra come il più grande Poeta e Romanziere italiano. Ciò che faccio fatica a comprendere, continuando nella lettura, è il motivo del suo “tergiversare” sulla sua nascita; affermando, cioè, di essere venuto al mondo in modo rocambolesco, addirittura su un brigantino. Perché ricorrere a queste, facilmente smascherabili, fandonie? Che bisogno aveva di mentire?
Per alimentare il suo mito. Avrebbe potuto semplicemente scrivere di essere nato a Pescara il 12 marzo 1863, e nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. Ma vuoi mettere il far passare la notizia di essere venuto al mondo a bordo di una piccola imbarcazione che veleggiava nell’Adriatico! Non c’è paragone. E visto che bugia chiama sempre bugia, si tolse pure un anno. Tanto per apparire ancora più un fenomeno.
Sulla quarta di copertina, in esergo, si apprende dei “Due anni di splendida miseria”, vissuti a Napoli. Come spiegare l’evidente ossimoro?
A Napoli d’Annunzio conobbe realmente la fame più nera. Ci sono lettere scritte ad amici nelle quali racconta di non avere nemmeno un tozzo di pane da mettere a tavola. Nonostante ciò, però, nel capoluogo campano d’Annunzio visse una delle stagioni più fertili della sua arte. Pubblicò il suo secondo romanzo, compose alcune delle sue poesie più celebri, scrisse articoli grazie ai quali viene unanimemente considerato uno dei più grandi giornalisti di tutti i tempi. Insomma, miseria sì, ma assolutamente magnifica.
Un punto cruciale, sulla sua caratterialità complessa, a volte indecifrabile, lo riscontro a pag. 220, quando scrivi: “C’è da dire però che così tanti problemi e affanni non riuscirono mai ad allontanarlo totalmente dai mille piaceri che la Napoli del tempo sapeva offrirgli”. Consentimi l’affermazione: mi pare che recitasse, sempre e comunque, se stesso…
Non c’è dubbio che quanto affermi è vero. Per d’Annunzio la vita fu sempre un palcoscenico sul quale recitare la parte dello scrittore “immaginifico”, del creatore di sogni. Con quel pensiero volevo però esprimere anche un’altra cosa, e cioè che pur contuttele difficoltà che visse, a Napoli, in fondo in fondo, si trovò bene. E anche quando ebbe l’occasione di andar via, decise comunque di restare, di consumare quella sua esperienza fino in fondo, non lasciando nulla in sospeso.
Nel tuo: Come Un Sogno Rapido E Violento, il tappeto narrante, oltre le vicende giornalistiche e letterarie nonché delle frequentazioni con Edoardo Scarfoglio e sua moglie Matilde Serao, è costituito dalla città di Partenope. Ti riporto una frase di Goethe, tratta dal suo Viaggio In Italia: Napoli sì è un vero paradiso; ognuno vi vive nell’ebbrezza di una specie di oblio di se stesso, ed io fo come tutti gli altri; quasi non mi riconosco, e mi pare essere divenuto altro uomo. Ieri pensavo, o che ero pazzo in passato, ovvero che lo sono diventato ora. La domanda è: a tuo avviso si può ipotizzare che la città sia stata un incantamento per entrambi?
Certamente sì. Vedi, d’Annunzio ha descritto, cantato Napoli come forse solo Salvatore Di Giacomo era riuscito a fare. Ma Di Giacomo era napoletano; d’Annunzio no. E questa non è una differenza da poco.
Ritorniamo un attimo alla sua collaborazione con la coppia Scarfoglio/Serao. Leggevo, sempre sul tuo libro, che su Il Mattino di quell’epoca tanti illustri scrittori, politici e letterati contribuivano a rendere più vario ed attraente il giornale. Possiamo affermare che la grande tiratura abbia giovato, in termini di popolarità, al giovane d’Annunzio?
Scarfoglio offrì ad uno scrittore in disgrazia com’era Gabriele all’epoca del suo arrivo a Napoli, una vetrina prestigiosissima. Quando lo scarfogliano Corriere di Napoli, “papà” de Il Mattino, cominciò la pubblicazione in appendice de «L’Innocente», il romanzo di d’Annunzio che nessuno aveva voluto stampare, venne organizzato un battage pubblicitario come non s’era mai visto prima.
Dopo le precedenti pubblicazioni sul d’Annunzio con CentoAutori, che hanno suscitato l’attenzione della critica e ricevuto notevoli riconoscimenti anche dal pubblico, sei nelle librerie con la gloriosa Casa Editrice Carabba. Come si è concretizzata questa consacrazione?
La Rocco Carabba Editore, anche se ai più può risultare sconosciuta, è la più antica casa editrice attiva in Italia. È nata, infatti, nel 1876, ed è la casa editrice per la quale d’Annunzio stesso pubblicò la sua prima raccolta di poesie, «Primo Vere», per cui Pirandello pubblicò il suo saggio «L’Umorismo», ma anche la casa editrice di Prezzolini, Papini, Salvatore Di Giacomo e tanti altri autori della nostra letteratura. Appena ho terminato questo lavoro, la grande giornalista e saggista Paola Sorge, che ne ha letto la prima stesura, mi ha consigliato di inviarlo alla redazione della Carabba. Qui, prima il coordinatore editoriale, Carlo Spera, poi il Presidente, Avv. Aldo La Morgia, e la Vicepresidente, Dott.ssa Maria Rosaria La Morgia, lohanno letto, lo hanno apprezzato, e così eccoci in libreria.
Dimmi della copertina…
L’affascinante volto che si vede in copertina è un’opera di Vincenzo Gemito. Si intitola «Frammento della testa di Anna» (Anna era la moglie del grande artista), e si conserva al Museo di Capodimonte. Molti mi chiedono perché lo abbia fatto tagliare, ma si sbagliano. Il disegno è proprio così. Personalmente, lo vidi per la prima volta tanti anni fa, quando questo mio lavoro era poco più che un progetto. Quello sguardo ipnotico, allucinato, che pare scruti l’animo dello spettatore ha però continuato sempre a vivere dentro di me, e così, quando ho scelto il titolo del libro, mi è parso l’abbinamento più azzeccato. Gli occhi, lo sguardo di Anna mi sembravano veramente quelli di chi si fosse appena svegliato da un sogno rapido e violento.
Sei appena rientrato da Pescara…
Sì. Per il secondo anno sono stato ospite a «Dannunziana», rassegna di studi dedicata al Vate da parte della sua città. Lì ho presentato con grande successo il libro, tant’è che Il Centro, il quotidiano più importante d’Abruzzo, ha voluto dedicargli poi una splendida recensione a tutta pagina. Adesso non mi resta che presentarlo a Giugliano, se ovviamente qualcuno vorrà ascoltare questa storia. Tu ci sarai, vero?
Ovvio che ci sarò!
Tobia Iodice, almeno per adesso come abbiamo sentito, chiude elegantemente il trittico dannunziano con un libro, amorevolmente dedicato ai genitori, alla moglie Tiziana e ai figli Viola e Miriana, che scorre fluido ed accattivante, nel quale racconta episodi e accadimenti del Vate durante la sua permanenza alle falde del Vesuvio; in quella Napoli di allora, vera capitale di Cultura, dove, in modo a dir poco strabiliante, il d’Annunzio intrecciò, come solo lui ha saputo fare, l’incanto dell’animo con l’eccitazione dei sensi.
Per chi segue Tobia Iodice, come il sottoscritto, non è una scoperta la sua scrittura armonica, ricercata ma scorrevole.
A coloro che ancora non abbiano nella propria biblioteca nulla del professore giuglianese consiglio di regalarsi una magia.
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