Tobia Iodice è firma nota ed apprezzata nel campo dell’editoria italiana: la sua arte narrativa, pregevole e raffinata, ha conquistato una miriade di lettori già col precedente libro su d’Annunzio; per non dire de: Il Rumore Del Male, dov’è riuscito a rendere “eleganti” i peggiori pendagli da forca che ristagnano sul territorio nazionale.

L’eloquenza che lo contraddistingue e le sue doti descrittive catturano l’interesse degli avventori in tutti i salotti letterari dello Stivale.

Il Professore ha da poco pubblicato un nuovo libro sul Vate, e il sottoscritto ha avuto il privilegio di leggerlo in anteprima.

Un onore che l’autore mi riserva e che mi spinge ogni volta a divorare quanto scritto, per poi poterlo incalzare con domande ed osservazioni alle quali non si sottrae; anzi, mi invita a partecipare e discuterne.

Esortazione che raccolgo il più celermente possibile; pertanto quella che segue è una chiacchierata su: I Violenti (Edizione: CentoAutori) ed è, anche se un po’ naif, un’intervista, attraverso la quale ho cercato di saperne di più e di cui vi rendo partecipi.

Tobia Iodice, Curatore del libro, ci parla dei sei piccoli racconti che Gabriele d’Annunzio scrisse durante la sua permanenza a Napoli, e che sono: La Morte Del Duca D’Ofena. La Madia. Il Martire. Il Fatto Di Mascàlico. L’Eroe. Mungià.

A distanza di pochi anni e dopo: Tutte Le Sfumature Della Rosa del 2013, dove sono raccolte le infinite lettere rivolte al suo grande amore Barbara Leoni, ritorni nelle librerie con: I Violenti. Sei Novelle Napoletane. Quando nasce l’attrazione fatale per Gabriele d’Annunzio, e soprattutto perché persiste?

È una passione che viene da lontano. Per l’esattezza dal 1994, quando lessi per la prima volta Il Piacere e rimasi folgorato dalla lucida e sensuale bellezza delle immagini che d’Annunzio aveva saputo creare con la sua scrittura. Da allora in poi, come una specie di fiume sotterraneo, d’Annunzio ha continuato a “scorrere” dentro di me, fino a quando – un po’ per gioco e un po’ per scommessa – non ho deciso di provare a fermare su carta questa mia passione.

Leggendo le Novelle, ne deduco che la violenza sia l’effettiva protagonista dei racconti. È così?

Più che la violenza in sé, la sua condanna. Delle sei novelle che sono contenute in questo libro, le prime tre raccontano episodi di ferocia assurda, cieca, irrazionale. I protagonisti sono quasi dei sacerdoti di una divinità primordiale assetata di sangue, alla quale vengono offerti sacrifici. Ma in d’Annunzio non c’è alcun compiacimento nel rappresentare queste manifestazioni di violenza cieca. Il suo scopo, al contrario, è catartico, nel senso etimologico del termine. Vuole cioè colpire il lettore con la narrazione di episodi di violenza gratuita, in modo tale che questo possa poi sviluppare dentro di sé un senso di rigetto per ogni esplosione di aggressività. Le restanti tre novelle, invece, sono rappresentazioni di violenza consumata in nome della fede. Con una capacità profetica che ha quasi dell’agghiacciante, 124 anni fa d’Annunzio condannò già ogni forma di brutalità commessa in nome di un dio; di un qualunque dio. Argomento, questo, quanto mai attuale alla luce di ciò che vediamo e sentiamo nei telegiornali di ogni giorno.

In pratica hai raggruppato I Violenti e Gli Idolatri, come a distinguere, eppur unendole, due tipi di ferocia. In ogni modo un d’Annunzio… Unusual?

Un d’Annunzio moderno. Vedi, su di lui ci sono troppi pregiudizi, troppi preconcetti. Lo si ritiene un autore vecchio, passato, inattuale. Ed invece è l’esatto contrario. Come nella sua epoca, ancora oggi Gabriele d’Annunzio è il precursore della modernità, uno scrittore capace di parlare e di rappresentare il presente meglio di tanti scrittori contemporanei.

Conoscevamo il Vate per le sue innumerevoli avventure galanti, che anche a Napoli sono poi “prolificate” ed il Gabriele sentimentale, riscontrabile nei suoi scritti. Ma poco sapevamo del d’Annunzio folkloristico, se mi passi il termine. Sembra che avverta il bisogno di raccontare della sua terra…

Il rapporto tra d’Annunzio e l’Abruzzo fu sempre fortissimo, anche se in realtà egli partì da Pescara ad undici anni e poi vi tornò raramente e solo per brevissimi periodi. Ciò nonostante, si sentì sempre profondamente figlio di quella terra selvaggia, passionale, in cui le montagne hanno “profili d’acciaio”, per dirla con Ignazio Silone (altro grande abruzzese), ed il mare, con il suo verde intenso, con i suoi trabocchi (le macchine da pesca tipiche proprio della costa pescarese), ha qualcosa di ipnotico.

Nella tua prefazione rimarchi come descriva i suoi anni passati nella città di Partenope, definendoli: Due anni di splendida miseria. Di questa sua opposta concezione, hai evidenziato l’aggettivo splendido, giacché negli anni a venire li rammenterà come irripetibili. Siccome anche a quattrini se la passava, a dir poco, male, toglimi un dubbio che mi assale: aveva scritto queste novelle in ricordo della sua amata terra lasciata? Oppure per fare cassa?

I ventisette mesi napoletani, come ho ricordato nella Prefazione al libro, furono fondamentali nella sua vita e nella sua arte, ma furono anche difficili. A Napoli d’Annunzio guadagnò cifre considerevoli, spendendone però, com’era suo solito, il doppio e restando spesso senza neanche il minimo per poter sopravvivere. Per questo si accordò con il piccolo editore Pierro, che aveva un’edicola-libreria in Piazza Dante, offrendogli sei novelle che prima di allora erano apparse solo su alcune riviste romane. Novelle che egli modificò, accentuò nei loro aspetti “violenti”, appunto, così da renderle più appetibili per i lettori napoletani. Novelle tutte quante ambientate in un Abruzzo direi quasi mitico, atemporale. Una sorta di luogo reale ma allo stesso tempo immaginario, nel quale le forti passioni che egli voleva mettere in scena trovavano un’appropriata cassa di risonanza.

E forse splendidi poiché a Napoli aveva composto altri capolavori?

A Napoli d’Annunzio scrisse il romanzo L’Innocente, che alcuni giudicano addirittura superiore a Il Piacere, il racconto lungo Giovanni Episcopo, che fu il primo tentativo di romanzo psicologico della letteratura italiana. Pubblicò le Elegie Romane ed il Poema Paradisiaco, che sono alcune fra le sue migliori raccolte poetiche. Abbozzò il suo terzo romanzo, Trionfo Della Morte, ed anche La Nemica, il suo primo tentativo di opera teatrale. Insomma, si può dire, senza tema di smentita, che il d’Annunzio gigante della letteratura italiana ed europea che tutti conosciamo, per buona parte nasca all’ombra del Vesuvio.

O Anche perché aveva avuto modo di placare, almeno in parte, la sua conoscenza dell’Oltre? Considerato che frequentava, con grande interesse, salotti esoterici.

Ci fu anche quello. A Napoli si avvicinò all’occultismo, di cui fu poi sempre un appassionato. A tal proposito, non lui (che sull’episodio che sto per raccontarti ha sempre mantenuto il più stretto riserbo) ma un suo conoscente, anni dopo la sua partenza dal capoluogo campano ha ricordato come, durante una seduta spiritica nella quale il Vate si divertiva a prendere in giro gli altri partecipanti, una creatura

mostruosa sia improvvisamente emersa dalle pareti della casa napoletana dove si stava tenendo l’evocazione, afferrando il povero Gabriele e scaraventandolo violentemente sotto un divano, per poi scomparire nello stesso muro da cui era emersa.

Ricordiamo inoltre, affinché i nostri figli e nipoti sappiano, che nella seconda metà dell’800, Napoli era la capitale della Cultura.

Quando d’Annunzio vi arrivò, nell’agosto 1891, Napoli era ancora la ex capitale di un grande regno. Era la sola città europea a superare il mezzo milione di abitanti, quella in cui si stampava il miglior giornale italiano dell’epoca, e mi riferisco a Il Mattino, quella in cui vi era un fermento editoriale capace di far impallidire la Milano dei giorni nostri. Insomma, Napoli era forse la vera capitale d’Italia. E lo fu fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Poi cominciò l’oblio.

Ritorniamo al tuo libro: dove hai scovato queste Novelle? Erano già edite?

Le sei novelle contenute in questo mio libro vennero stampate a Napoli nell’Ottobre del 1892, e poi mai più editate uguali. Vuol dire cioè che quando d’Annunzio raccolse tutti i suoi racconti nella raccolta Novelle Della Pescara, le modificò rispetto alla versione napoletana. Per questo posso con orgoglio affermare che chi avrà la voglia di leggere questa mia fatica, potrà dire di aver letto un inedito di d’Annunzio. Una sua opera che si lesse solo a Napoli 124 anni fa, e poi mai più uguale. Un privilegio che è stato possibile perché ho ritrovato sul mercato antiquario quei preziosi volumi stampati da Pierro, ma anche perché Pietro Valente e tutta la squadra della Cento Autori hanno accettato la sfida di riportarle alla luce.

Andiamo per un attimo fuori sede. Mi va di fare un accostamento, poi mi dirai se legittimo, con Eduardo. Ambedue, non sempre velatamente, additati come plagiatori. Parlando del Vate: quanta verità in queste sottili, ma percettibili, illazioni?

Quello dei plagi di d’Annunzio è un problema storico della critica dello scrittore abruzzese. Certamente d’Annunzio in molte sue opere, e anche in queste novelle, si ispirò a cose già scritte da altri. Tuttavia la sua grandezza ed il suo genio sta nella capacità miracolosa che egli aveva di rendere straordinariamente nuovo, e soprattutto profondamente personale ed originale, tutto ciò che manipolava. Immaginando le opere di d’Annunzio come un quadro, potremmo dire che gli capitava di usare gli stessi colori adoperati da Leonardo per La Gioconda, con i quali però lui dipingeva Il Giudizio Universale. Insomma: due cose radicalmente diverse tra loro!

Come pure, non pare estraneo il Dante… infernale.

Dante fu sempre un punto di riferimento obbligato per d’Annunzio. Ed in questa raccolta torna soprattutto nella prima novella, La morte Del Duca D’Ofena, in cui si racconta la ribellione di un gruppo di contadini nei confronti del loro signore, il Duca d’Ofena appunto, punito sì per le sue angherie, ma anche perché ama di “tristo amore”, di amore omosessuale, il suo valletto. Come Dante raffigurava i sodomiti sotto una pioggia di fuoco, anche d’Annunzio fa espiare con le fiamme al suo protagonista il suo amore “impuro”. Ed a tal proposito, permettimi ancora una volta di sottolineare la modernità di d’Annunzio e di queste novelle. Nel 1892 lo scrittore abruzzese ebbe il coraggio di inserire in un suo racconto, seppur velatamente, un episodio di quella che oggi chiameremmo omofobia. Non c’è ombra di dubbio: d’Annunzio fu sempre, sempre, contemporaneo al domani!

Un’ultima curiosità. Hai posto l’accento sul “Rinnovamento” Dannunziano. Un’esigenza per uno spirito inquieto. Quasi una necessità direi, e prerogativa di una mente eccelsa. Un uomo eclettico, poliedrico, vulcanico e sempre una spanna avanti tutti gli altri…

Vedi, d’Annunzio è celebre, oltre che per le sue opere, per i suoi amori, per le sue azioni temerarie, anche per i suoi motti. “Memento Audere Semper”, ricordati di osare sempre, è una delle frasi che più spesso i giovani d’oggi si fanno tatuare sul corpo. Ebbene, un altro dei suoi motti era: Rinnovarsi O Morire. Uno scrittore, un intellettuale non può e non deve mai fermarsi. Deve continuamente “sfidare” la propria capacità creativa, “osare l’inosabile”, sempre per citare Lui. E d’Annunzio l’ha fatto, rischiando anche fiaschi clamorosi. L’ha fatto “Usque Ad Metam Et Ultra”, fino alla meta e oltre, come recitava un altro dei suoi celebri slogan.

E Gabriele d’Annunzio ha davvero sfidato noi mortali e dato il segno della sua eterna presenza in una notte di Novembre del 2004, quando una forte scossa di terremoto colpì il Vittoriale, e l’unico danno riportato fu il distacco della lapide che ne ricordava la sua sepoltura.

Quella stessa lapide che anni prima venne rimossa per controllare se al suo interno ci fosse “L’Oro Di Dongo”: ovvero i tesori e documenti del Duce. Il Vate ha scritto nell’etere, chissà se per l’ultima volta, di non profanare ciò che è stato, e sempre sarà, suo, giacché non ne abbiamo l’approvazione.

filippodinardo@libero.it

I Violenti - Tobia Iodice - copertina

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