Quando il dolce malessere può trasformarsi in violenza
Sono trascorsi otto anni da quando Roberto Capozzi, precursore nell’affrontare una tematica già dilagante nella sua drammaticità, esordì con il suo primo libro: Cose Da Bulli e come sottotitolo reca: “Bulli, Buoni & Secchioni” ed ancora tra parentesi (I Ragazzi Della 3ª C).
Data la sempre più preoccupante attualità, e riscontrando come questo fenomeno si vada sempre più atrocemente acuendo, ripropongo quanto scritto appena dopo la sua pubblicazione. Tenendo pure ben presente gli ulteriori danni collaterali che si sono maggiormente sviluppati, disgraziatamente, con il dilagante uso dei Social.
Ovviamente i modi verbali sono… andati.
In copertina troviamo la foto di un’aula -di come ce ne sono tante- che però mette subito a pensare, giacché la foto presenta l’aula spezzata a metà; come a voler significare che, talvolta o sovente, questi pochi metri quadrati, così come servono a riunire gli animi eppure i corpi volendo, spesse volte non fanno altro che frammentare le singole personalità le quali, invece di essere i prodromi di una futura Koinè, possono pure presagire delle fratture, intese come sistema di comportamento e di pensiero, che poi si ripercuoteranno nella vita sociale che si andrà ad affrontare: e rimarca, inoltre, come già in tenera età si acquisiscono delle linee di condotta, e degli atteggiamenti, verso gli altri.
Una precisa dichiarazione di intenti, quindi, che rende perfettamente l’idea di ciò che andremo a leggere. Complimenti, pertanto, all’idea (foto)grafica.
Con la quarta di copertina si può saperne di più in quanto lo stesso autore, oltre ovviamente al prologo, ci dice qual è stato lo scopo da cui e per cui è scaturito questo suo lavoro.
Dopo di ciò seguono alcune note biografiche che ci presentano, sinteticamente, Roberto Capozzi. Un uomo, ancor giovane, che ama la Cultura in ogni sua accezione: ama la musica, il cinema, lo sport, la lettura, e soprattutto -ed è quello che a mio avviso lo ha oltremodo spronato- nutre un evidente sentimento di affettività verso la sua famiglia ed ha palesemente a cuore le sorti dei giovani, sia che siano i propri figli sia che si tratti dei ragazzi in genere.
Già da questo passaggio obbligato (e vale a dire la lettura della presentazione, che si ha di primo acchito scorrendo ciò che egli dice) si designa quale può essere il punto di arrivo per l’autore. Egli ci informa che, attraverso un linguaggio accessibile, ha voluto, in un certo qual modo, lanciare un messaggio, ed un grido d’allarme al contempo, a quanti vivono l’età adolescenziale, che non è scevra da falsi miti e da illusorie prese di posizione che potrebbero rivelarsi finanche letali, qualora non si comprendano i rischi (ed i consequenziali drammi) che queste distorte filosofie di pensiero comportano.
Egli spera di essere di aiuto a quanto vivono nel sottilissimo confine che separa la “bravata” dall’acclarata illegalità, e mette in guardia i soggetti più facilmente condizionabili, i quali, non avendo un preciso esempio da emulare possono commettere errori che si ripercuoteranno indelebilmente nel futuro prossimo e di quello a venire.
Mi trovo perfettamente d’accordo (e concorde) quando Capozzi, nel prologo, dice che: “… essere tosti vent’anni fa era molto diverso dall’essere bulli oggi”. Questo non per ribadire che oggi si compiano molte più “scemenze” rispetto a tempi addietro, poiché ogni gioventù ha registrato le sue incomprensioni e disagi e ogni epoca ha avuto i suoi “guastatori”, ma per rimarcare come oggi alcuni “costumi” paiono, anzi lo sono di sicuro, più insensati ed irresponsabili rispetto a quelli archiviati qualche anno fa.
Anche perché alcuni timori reverenziali -ed istituzionali- hanno lasciato il posto all’arroganza ed alla sopraffazione gratuita. Diciamoci la verità: certi modi agire non appartenevano ai giovani di qualche decennio passato, ed una certa (o presunta) “maturità” la si registrava sia in classe che fuori.
Ripeto: a mio avviso le “stronzate” sono sempre esistite e non finiranno adesso, ma la Persona ancora era considerata un essere umano e certe “emulazioni” (propinate via Tv così come via Internet) non passavano per la cocozza di nessuno, poiché fin in giovane età si era più responsabili o quantomeno più consapevoli.
Ma la finisco qui perché invece di presentarvi il libro ci metteremmo a disquisire di pedagogia, di morale e tematiche sociali che, quantunque il libro propone, non sono parte integrante di una recensione.
In ogni modo, se Roberto Capozzi intendeva, come intende, aprire un dibattito, che porterebbe ad una presa d’atto e di una revisione dei costumi, per quanto mi concerne, ci è riuscito appieno. Ma veniamo a noi.
“Cose Da Bulli”, è stato pubblicato dai tipi della Aletta Editore ed ha (come sovente mi capita di registrare) un prezzo non certo di poco conto, per un autore che tenta di emergere e che dice cose sagge e che soprattutto (come chiunque scrive) vuole che si legga il suo lavoro. Il libro costa 14,00 Euro: poco o molto a seconda dei punti di vista, o delle tasche.
Confesso di averlo iniziato a leggere con una certa “spensieratezza”, giacché le problematiche esposte sono lontane (per ragioni purtroppo anagrafiche) dal mio mondo, ed anche perché non mi appartengono; sia chiaro che il contesto è sociale e quindi non posso esimermi dal farle anche mie, ma alcune “questioni” mi appaiono così distanti, e così misteriose, che faccio fatica ad accettarle.
Ho cominciato con l’ouverture, per poi procedere con un capitolo al giorno. Poi però, dopo le prime proiezioni in questo mondo giovanile, mi sono accanito ed ho proseguito in maniera quasi frenetica la lettura, manco fosse un giallo, per sapere al più presto come andasse a finire.
Roberto Capozzi, melitese DOC, ci toglie, già dall’ultima di copertina, il gusto di assaporare la conclusione di questo suo excursus nel problematico, travagliato ed ingarbugliato mondo giovanile, in quanto scrive: “In altre parole il mio racconto non è altro che uno spaccato di vita quotidiana, con un pizzico di morale… E un lieto fine”.
Quindi si garantisce che tutto vada a buon termine e che ad ogni sbandata, breve o prolungata che sia, faccia seguito il ravvedimento opportuno. RC si augura e desidera che sia così, pur sapendo che la realtà (virtuale) di un libro mal si accosta ai tragici finali che la vita propone. Ma l’autore invia un messaggio ai giovani e gli dice che si può sempre cambiare, si deve sempre far affidamento alla famiglia, e bisogna inoltre ricordarsi che non si è mai soli.
Dicevo che, a mio avviso, l’autore in un certo senso spera che l’Happy End ci sia poiché, forse, teme che certe condotte non abbiano possibilità di redenzione; egli ha paura per i giovani e ragazzini che non avendo un saldo punto di riferimento possano imbarcarsi in avventure e situazioni più grandi della loro già fervida immaginazione e facciano poi inevitabilmente fatica a trarsene d’impaccio.
E come non condividere i suoi timori; ed ecco perché farebbe bene a tutti leggere questo libro; ma non solo è propedeutico per minorenni e neo maggiorenni ma sarebbe consigliabile pure a chi crede e suppone che il “mestiere di genitore” sia una virtù innata.
La classe è una terza qualsiasi ed in questa piccola società gravitano alunni ed alunne, ognuno/a con il suo mondo, con la sua indole, i suoi problemi, e con la sua “singolarità” che impedisce di fare “squadra”, giacché, seppur inglobate in un piccolo contesto, qual è un’aula, non sempre le umanità si amalgamano. Si parte con la gita a Pompei per poi raccontare il segreto di Ricky; segue l’avvicendamento di un nuovo capo, con alcune difficili decisioni da prendere, senza tralasciare la coscienza di Gegè, e quelli che s’improvvisano detective arriviamo a giugno; dove, con la fine dell’anno scolastico, cominceranno i sogni di ognuno: qualcuno si avvererà, qualcun altro è rimandato a data da destinarsi, ma tutti, in quelle serene notti d’estate, si soffermeranno a guardare la luna.
Ma questo succede un poco dappertutto quando si deve convivere con gli altri. Però, in questo caso, le coscienze ancora devono formarsi, e durante la giovinezza possono plasmarsi proprio in virtù del contesto dove maggiormente ci si trascorre del tempo in relazione con gli altri -e vale a dire la scuola prima e la strada dopo, così come davanti ad un monitor- e dove si assimilano pose e posizioni non sempre edificanti e, come dicevamo, fuorvianti oltremisura.
Capozzi si riporta indietro nel tempo, quasi riassapora quei profumi, e si riappropria di quello “stato mentale” che faceva sì che il “tosto” di una volta, grazie ad un atteggiamento marcato e da sicuro leader, godesse di “privilegi” e “considerazione”; mentre ora, ribadisce, quella “figura” ha lasciato il posto ad un puerile look esteriore privo di spina dorsale e carisma. E già.
Nell’introdurre il racconto, RC in primis, ci presenta la famiglia dei suoi anni giovanili, poi passa ai suoi compagni di classe, li contraddistingue e li suddivide, appunto, in Bulli, Buoni e Secchioni. Le singole vicende personali (che vi ho accennato ma che lascio a voi scoprirle) si intersecano con tutte le altre, e questo variegato mondo (del boy del duemila) è presentato con uno stile profondo ma fruibile, considerata la facile eloquenza dell’autore, il quale, pur trattando argomenti ostici, non tracima nel gratuito giudizio e non sale in cattedra: egli fotografa e riporta le vicende/vicissitudini di Luca, Eugenio, Isabella, Marika, Angela, Umberto, Samuele e via via tutti i compagni classe.
Mi aspettavo una sorta di “turpiloquio” (o quantomeno un linguaggio “aggressivo”) da parte dei pseudo bulli ma l’autore, con una precisa scelta, che condivido appieno, non preferisce far parlare in modo triviale i “suoi ragazzi” difficili; ed è una felice scelta, poiché, sempre a mio avviso, anche attraverso un linguaggio ripulito e non scorretto si riesce a dare la giusta dimensione ad un discorso (che merita un doveroso approfondimento) e pertanto, mettendo da parte un frasario pruriginoso ma sicuramente sciorinato nella realtà, ci vuole (anche e soprattutto) dire che qualsiasi forma di “educazione” e di “insegnamento” deve partire proprio dai dettagli lessicali, che poi superficiali non sono, e che restano indelebilmente il viatico per il futuro dei nostri figli. Come a proporre: facciamo in modo che, in primo luogo, il Libro non sia fonte di apprendimento di parole sconce, che poi rivestiranno inesorabilmente il nostro abito mentale e didattico.
Ripeto: il lieto fine è proposto (seppure, personalmente, talvolta, lo credo illusorio) ed è (nella vita reale) raggiungibile solo se si prende atto di questo mal di vivere che vuole Bulli a prescindere chi, (magari, o senza dubbio) chiede ascolto a coloro che non riescono e tanto meno vogliono sentire.
L’autore chiosa (e di nuovo sono in sintonia con lui) col dire che ognuno può scegliere cosa farne della sua vita poiché siamo (anche se non sempre, in verità) liberi di fare le nostre scelte, e quindi invita, o meglio sprona, i giovani, a riappropriarsi di un bene grandioso che è quello della ragione che deve prevalere sull’istinto, e che ci si deve opporre agli stereotipi che indicano il bulletto di quartiere come omuncolo da imitare e/o peggio da ossequiare.
Mi piace, per ciò, concludere, la mia personale recensione/presentazione, con la frase che Roberto Capozzi usa per terminare il suo viaggio a ritroso nel tempo: “Bulli, Buoni o Secchioni per convenienza, per vocazione, per convenzione, per indole o per passione… siamo ciò che decidiamo di essere!”.
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