Continuano gli effetti perversi della “globalizzazione” sulla nostra economia nazionale

Secondo le lucide analisi fatte, anche “controcorrente”, dai più grandi studiosi dell’economia contemporanea continuano ad aumentare, su scala planetaria, gli effetti perversi, distorsivi della concorrenza e totalizzanti causati da oltre un decennio di crescente globalizzazione dei sistemi produttivi e del commercio internazionale.

Una condizione perdurante che, nel frattempo, ha distrutto la competitività di molti paesi, fra i quali l’Italia. In altre parole, la completa “interdipendenza dei mercati” ha di fatto annullato la concorrenza per molti prodotti nazionali, anche tipici, pur avvenendo nel formale rispetto dei Trattati mondiali per il commercio, alquanto sottovalutati nei loro effetti.

Anche qui l’Unione Europea non ha saputo svolgere un ruolo efficace.

Con parole molto semplici, oggi tutti i settori economici e commerciali esistenti sui cinque continenti del mondo sono irreversibilmente collegati da un unico indicatore rappresentativo “il costo di produzione della merce”. Un fattore totalizzante che, a livello di qualità medio bassa del prodotto in compravendita, divenendo decisivo, ne garantisce il successo sui mercati planetari.

Per questa ragione fondamentale, attraverso la cd “delocalizzazione” i siti di produzione di merci e manufatti “non specialistici” o di alta gamma commerciale sono localizzati presso Paesi sempre più lontani e sottosviluppati, ove il “costo del fattore lavoro” individuale, collettivo e delle materie prime, è più basso.

La progressiva rincorsa all’abbassamento dei prezzi di qualsiasi oggetto è fenomeno strettamente legato alla continua introduzione di nuove tecnologie seriali che semplificano e abbassano i costi relativi nel ciclo della produzione industriale.

Una situazione del genere non consente più agli Stati tradizionali ed in specie a quelli del “vecchio Continente” di poter essere concorrenziali rispetto ad una vastissima gamma di prodotti industriali ed artigianali. Laddove, gli stessi costi di trasporto rientrano in limiti sempre decrescenti di prezzo, poichè determinati da economie di scala per noi inarrivabili.

Si pensi che, addirittura, l’assemblaggio finale di molte merci avviene sulla nave da carico, trasformata in fabbrica, durante la navigazione verso la destinazione commerciale, con ovvio guadagno di tempo su ogni concorrenza.

Inoltre, sia i lavoratori a terra che quelli imbarcati sono pagati miseramente: uno o al massimo 2 dollari al giorno, oltre a non godere di alcun diritto, lavorando dieci o più ore al giorno in ambienti malsani e privi di ogni servizio. In caso di malattia essi vengono licenziati senza vie legali, ovvero “buttati fuori” verso la peggiore indigenza dei loro paesi: Bangladesh, India, Pakistan o Cambogia che sia la situazione cambia poco. Nelle fabbriche vige il terrore.

Ovviamente il mondo occidentale e soprattutto la vecchia Europa, ancor meno la debole Italia, possono resistere a tale concorrenza al ribasso e frutto della negazione completa di ogni diritto dei lavoratori asiatici.

Occorre intervenire, a tutti i livelli e soprattutto con l’Europa, per limitare questi effetti commerciali disastrosi.

Giorgio M. Palumbo

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