La ripresa autunnale rimarrà solo una speranza?

Ancora una volta gli italiani affrontano le loro sempre più brevi vacanze estive, anch’esse infatti sono state da tempo tagliate impietosamente nella durata, rispetto al canonico intero mese di agosto di ciascun anno di un epoca migliore, dalla crisi economica tuttora in corso. Rispetto al periodo precedente al 2010.

Inoltre, dopo almeno 6 anni di stagnazione in economia o peggio di deflazione, la perdita di interi settori di attività economico commerciali e di un milione di posti di lavoro circa si unisce alla preoccupazione nel futuro, anche prossimo. L’incertezza strutturale crea un aspetto che per gli italiani diventa sempre maggiore.

In particolare, per il destino lavorativo assolutamente incerto di figli e nipoti.

Resta la speranza “esterna”, sopratutto in una ripresa economica che, partendo su larga scala continentale, possa poi utilmente coinvolgere anche il nostro Paese. In questo quadro, l’attuale governo ha fatto qualcosa, forse quanto realmente poteva fare, rispetto agli asfissianti criteri restrittivi di bilancio pubblico impostici dalla Commissione dell’Unione Europea.

Si  tratta quasi di un commissariamento della nostra economia interna.

Già, questo è uno dei punti essenziali, infatti un Paese aderente alla U.E. quando si trova in situazioni deteriorate dei conti pubblici, come i nostri sono da anni, non può sforare dai parametri restrittivi imposti neppure per investire. Per poter creare delle nuove opportunità lavorative, magari solo giovanili od intervenire in ausilio a settori di crisi.

Ovvero, la situazione del gatto che si morde la coda, girando ed avvitandosi su se stesso e così sprecando inutilmente energie. Il chiavistello di ogni possibilità si chiama “patto di stabilità finanziaria” e come detto preclude ad uno Stato della U.E. qualsiasi investimento prima di aver risanato parametri, rispettato clausole, condizioni ed abbassato il “debito pubblico consolidato”.

L’Italia è molto lontana dagli obiettivi di risanamento che ha accettato di sottoscrivere con la Commissione dell’Unione Europea dal 2001 in poi ed alcuni di questi impegni, già più volte rinviati nel corso degli ultimi anni, ora incombono. In particolare, parliamo del cd. “fiscal compact”.

Ovvero di quell’impegno, di durata ventennale, per rispettare il quale ciascun governo italiano deve abbattere il proprio debito pubblico (una montagna negativa, annualmente pari al 132% del P.i.l. nazionale) per una cifra di 50 miliardi di euro all’anno che, moltiplicata per 20 anni, dà il risultato di 1.000 miliardi di euro !

In assenza di una forte e costante crescita economica si tratta di risultati impossibili da conseguire, di certo da rinegoziare, poiché l’unica, grave, alternativa sarebbe quella di destinare la metà delle entrate fiscali annuali del Paese al risanamento economico del debito, anziché al finanziamento corrente dei servizi pubblici.

L’effetto sarebbe però sconvolgente sull’economia nazionale.                                                                   

Giorgio M. Palumbo

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