Dal bar dello sport, in attesa che il clima si infiammi per il big match di sabato, proviamo a spostarci un po’ in uno spazio che è a metà fra l’aula di filosofia morale, una sagrestia di paese, un consultorio per coppie sterili. Riflettevo, del tutto casualmente, sulla chiusura della Chiesa rispetto a determinati aiuti che la scienza può dare alle coppie alle quali la natura non ha concesso, per mille motivi, la gioia di diventare genitori.

Che differenza c’è, in termini sia scientifici che etico-morali, fra le tecniche e gli strumenti con cui si lotta contro la morte e quelle/i per mezzo di cui si prova a generare vita?

Che differenza sussiste, ad esempio, fra le terapie anti-cancro e le pratiche di fecondazione assistita?

L’assunto di base è che solo Dio, ATTRAVERSO la Natura – pur senza arrivare ad accenni di spinozismo -, possa donare la vita: ciò ne fa, penso di non forzare l’argomentazione, il dominus, il padrone assoluto della stessa.

Il medesimo principio non DEVE valere anche, mi chiedo, sul versante del fine vita? In fondo, per quel che riguarda l’eutanasia la Chiesa è coerente con se stessa, in quanto afferma che l’uomo non può arrogarsi il diritto di stabilire se e quando sia giunto, per un suo simile, il momento di morire. Ma con le cure che pongono l’uomo in lotta strenua contro la morte, come la mettiamo?

Non è, Dio, dominus, padrone della vita anche nel momento – certo drammatico – in cui essa si conclude? Si può ammettere, senza un cedimento che immagino sarebbe prima religioso, ma che a me pare indiscutibilmente anche filosofico, che esista un segmento, ancorché minimo, della vita su cui il potere assoluto di Dio venga meno, nella sostanza delle cose lasciando all’uomo la possibilità di assumere un ruolo suppletivo? Credo di no, perché si rischierebbe di inficiare la assoluta e sovrana onnipotenza dell’Ente supremo: l’uomo, in soldoni, non deve poter mai fare da supplente a Dio.

Anzi, a ben guardare, non si tratta neppure di un ruolo suppletivo.

Non dovremmo sostenere, piuttosto, che l’uomo che inventa la chemioterapia si contrappone forse a Dio nella stessa misura in cui lo fa colui che cerca di disserrare con la forza del proprio ingegno quei cancelli dell’accesso alla vita che, per ragioni imperscrutabili, la Natura ha chiuso, sbattendoglieli in faccia, (solo) ad alcuni esseri umani?

Non promanano entrambe, vita e morte, dalla volontà dell’Altissimo? Dover accettare che un essere umano muoia per una malattia incurabile, non è la stessa cosa che dover accettare che un uomo ed una donna non possano essere chiamati papà e mamma?

<<Ma che c’entra?>>, mi si dirà. <<Le cure mediche sono una cosa buona, sono il portato di un corretto uso dei doni intellettuali che Dio ci ha concesso: con le cure mediche, in fondo, si evitano e si combattono dolori strazianti>>.

Perché – mi sento di rispondere -, i tormenti dell’animo di chi vorrebbe veder nascere, crescere ed accompagnare una vita e non può farlo cosa sono? Non sono dolori anche quelli?

P.S. Queste (lunghe e noiose) riflessioni nascono prive di qualsivoglia intento polemico: mi piacerebbe, anzi, che qualcuno mi aiutasse a chiarirmi le idee su quella che ritengo, sotto svariati punti di vista, una clamorosa incoerenza.

Andrea Carpentieri

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