Davvero entusiasmante quest’ultima pubblicazione di Gianni Montieri in cui propone diverse testimonianze, sia di ricordi personali che schegge di vita vissuta, con uno scenario che spazia dalla Napoli di un tempo alla Giugliano di un perpetuo fermo immagine, unitamente alle realtà globali di un mondo microchippato ma in continua involuzione. 

Montieri, in Ampi Margini, concentra Poesie e Prosa, che poi è tutto un piacevole sentiero di lettura, con una scrittura espressiva e spesso sanguigna che trasuda e trasmette sapori antichi, commisto all’odierno mal di vivere. 

Ne parliamo con l’autore:

Il libro si apre con le sentite dediche. La sposa Anna, che ti parla di una città svenuta; la mamma Concetta “Scrivere di una madre… La somma delle rinunce… L’applicazione del dare…” e tua sorella Angela, di quando nella cameretta di un altro ieri “… Lei con le calze bianche e io col maglioncino azzurro ascoltavamo fiabe”: un tris di donne a te più che care….

Un libro così, così pieno di cose, di pensieri, di memoria, di rimandi e di nuovi inizi, non poteva che cominciare con le dediche a tre donne cui devo tutto, sono grato; donne che ogni giorno mi insegnano.

Consentimi un ricordo di Mimmo, per tutti “Il Ragioniere”. Un uomo perbene dotato, a mio avviso, di un sottile ma ben percettibile umorismo britannico/partenopeo che coglievo nelle infinite discussioni esistenziali che facevamo. Tanti i sentimenti che gli hai dedicato in Ampi Margini. Dal tiro alla Ferenc Puskas, alla via Broletto di sergioendrighiana memoria. Un vuoto intenso…

Mi fa piacere che si parli di papà, di Mimmo. Hai ragione aveva un umorismo di quel tipo, un po’ britannico, un po’ nostro. Umorismo che ha conservato quasi fino alla fine. In Ampi margini c’è un intero capitolo che si intitola Con mio padre e mi piace pensare – e credo sia così – che non si tratti di poesie dedicate, ma testi che proseguono un dialogo, perché le persone che amiamo non se ne vanno mai davvero, stanno tra i nostri ricordi, nelle accensioni improvvise che tornano. Continuo a parlare, perché ci sono cose che non sappiamo dire mai per tempo, e non penso al vuoto, ma a una buona malinconia, quando penso a Mimmo sorrido, quando leggo quelle poesie non sono triste, mi commuovo ma è un altro discorso. Mio padre è sempre quel tizio che si coordina e mi insegna il tiro all’ungherese.

Da quanto tempo vivi… all’estero?

Eh, eh. Ormai gli anni sono 27, 28, sono parecchi. Col tempo però, e il libro dice molto in tal senso, mi sono reso conto che non si lasciano mai luoghi per davvero, vengono sempre con te. Indosso Giugliano, indosso Napoli, indosso Milano, indosso Venezia, e mi va molto bene così, sono stato fortunato.

Ma l’atmosfera di Mezzocannone non è più respirabile però…

Non saprei dirti, di certo le atmosfere cambiano, la Mezzocannone di cui parlo in una poesia è un richiamo al clima di metà anni novanta, di occupazioni universitarie, di giorni in cui ci pareva che non dovessimo aspettarci nulla, eppure le cose accadevano, crescevamo in qualche modo.

Il traffico eterno di via Caracciolo; gli incontri e le birre a San Domenico, il Chiostro che sempre commuove; il vociare di Forcella con i suoi colori. Napoli è una città dai cento volti e dalle mille sfaccettature. Che sia tutta un’illusione?

È con ogni probabilità l’illusione più riuscita di sempre, eppure più vera del vero, è così piena di realtà che – paradossalmente – a volte ci pare incredibile. Sembra sempre uguale e invece cambia di continuo, non può restare ferma una città che si regge sul vuoto, che ha un vulcano come sorvegliante e il mare davanti.

Per comprenderla ed amarla/odiarla bisogna vivere nel suo ventre?

Forse non la si comprende mai fino in fondo e fa parte del suo bello. La si ama, la si odia, tutto mescolato. A volte è bene staccarsene, io col tempo mi sono convinto di amare Napoli di più adesso, da lontano, mentre invecchio, e questi sono tra i motivi di alcune poesie di Ampi margini.

Da chitemmuorte a chitammore in un amen. Il napoletano è lestissimo nel cambiare atteggiamento e opinione verso il prossimo?

Diciamo che è lestissimo, in generale, l’accelerazione del dialetto poi consente di cambiare tono a una frase modificando qualche sillaba. È l’incanto del napoletano, sposti un paio di lettere, un accento e lo scenario cambia: una bestemmia si trasforma in una possibilità.

Proseguendo nel tuo vagare, salgo con te all’ultimo piano del Filangieri. I “fantasmi” della città di Partenope non si dissolvono nemmeno col passare dei secoli…

La storia delle città è piena di fantasmi, di presenze, così nell’ex asilo Filangieri o a Santa Fede liberata rimangono, chi è passato ha lasciato una traccia, dobbiamo fare i conti con quelle ombre, con i lasciti, quando immaginiamo, anche quando scriviamo.

Dopo l’omaggio a Diego Armando ritorna la preghiera e la maledizione col chitammore verso Napoli, che non cambia. O siamo cambiati noi, non avendo più il disincanto degli anni giovanili?

Noi siamo cambiati e – come dicevo più sopra – anche Napoli è cambiata, giorno dopo giorno, cambia di continuo, solo che è più semplice nel racconto collettivo dire che la città non cambia mai, ma, come scrivo nella poesia cui accenni, mentre parlano le parole gli scivolano dalla bocca, dalle mani. Tutto è già diverso, di nuovo.

Continuo ad immergermi nella lettura viaggiando, con la mente e la memoria, in una città che vive di un tempo sospeso. Anche le mura sono custodi di antiche ma perenni piaghe…

Tutto è conservato, tutto esiste nella nostra capacità di usare il nostro immaginario. Le mura sono custodi di piaghe, immagino di sì, ma anche di gioia, di tradizioni, di balli antichi, di speranze stratificate, di tufo, di pioggia accumulata e chissà cos’altro ancora.

Terminiamo l’amore/odio. “… L’Italsider non c’è più ma siamo invecchiati, non è poco…”. Una momentanea vittoria sulla morte che tanta umanità ha sradicato in un recente passato…

Non so se si tratti solo di questo, in quella poesia ho cercato di raccontare che andarsene può significare molto o niente, conta quello che fai con le tue partenze e con i ritorni. Essere invecchiati, in qualche modo, non è poco sì, vuol dire quanto meno averci provato.

In Avremo Cura leggo: “Milano mi somiglia…”. Resto spiazzato sentendolo da un napoletano…

Mi somiglia sul serio, è una città in cui ho vissuto quasi 25 anni, e alla fine mi sono accorto che ho amato di lei le cose meno celebrate: le periferie, certe storie, le mattine fredde, certe abitudini. Ci siamo voluti bene io e quel posto, ce ne vogliamo ancora.

Trovo molto suggestivo questo passaggio: “Sapevo che sarebbero ritornati i treni…”: che rapporto hai con questo mezzo di trasporto?

I treni per me contano e hanno contato molto. Il treno è il mezzo di trasporto che amo di più, ti dà il tempo di leggere, di guardare il paesaggio che cambia guardando fuori dal finestrino. Mi piace il momento in cui lascia una stazione, vedere le cose e le case allontanarsi piano piano, e mi piace quell’altro momento, quello in cui si avvicina alla meta. Perciò Napoli sarà sempre annunciata dal Vesuvio sulla sinistra e poi dal Centro Direzionale a destra, Milano dalle case gialle di Lambrate, Venezia dalla laguna che spunta sotto il Ponte della libertà. Devo molto ai treni.

Se paragono una Poesia a una fotografia in versi… tu che mi dici?

Non lo so, a volte può esserci una similitudine, perché anche in poesia si ferma un istante, ma poi il resto del processo è molto diverso. In una fotografia guardi e scatti, per la poesia a un certo punto succede che cominci a scrivere, ma il tempo di osservazione è stato molto tempo prima o non è stato mai. È complesso ma interessante, esistono molti progetti che mettono insieme fotografie e testi poetici, o opere d’arte e poesie.

Sul finire di Avremo Cura troviamo: “Ho visto un video girato in Libano…”. Tutti proviamo orrore per gli inutili massacri che, però, si registrano altrove. E ancora: “… Cosa provo? Orrore come tutti/il morto avrà avuto vent’anni/io ne ho quaranta, mi preparo una tisana/punto la sveglia”. L’egoismo (unitamente all’egotismo, direi) aiuta a sopravvivere in un mondo ormai martoriato da guerre (dis)umane e calamità (sopra)naturali?

Le cose accadono contemporaneamente, sempre. Non credo si tratti di egoismo, ma di sopravvivenza. Di certo proviamo dolore e pena per le guerre, per i migranti che muoiono in mare, i più attenti tra noi provano a fare qualcosa. Ci dispiacciamo mentre proseguiamo nelle nostre cose, nel nostro quotidiano. Siamo cattivi se mentre muoiono delle persone noi andiamo al cinema? Forse no, siamo questo, siamo fatti di tante cose.

 “C’erano ampi margini, confini…”, mi sembra che la vita sia la rappresentazione di una realtà che resta un’illusione. Forse ho accartocciato parole e triturato pensieri. Tirami un salvagente…

No, devi nuotare da solo. Scherzi a parte, gli ampi margini sono un sacco di cose: il campo per un potenziale miglioramento, lo spazio dove guardare, provare a superare un confine, allargare il campo del sogno, usare l’immaginazione. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcuno no, quasi sempre è stata fortuna. La realtà e l’illusione sono lo stesso terreno di gioco, si sovrappongono, una rende sopportabile l’altra.

Per esempio mia nonna… Lei era di un altro Sud/sorrideva, non moriva”. Il saper tragicamente sorridere alle avversità della vita, è la nostra salvezza?

Credo proprio di sì, è una vecchia ricetta, funziona ancora. Poi mia nonna era bellissima.

Dagli anni Ottanta ai giorni nostri i ratti non sono diminuiti e le zoccole sono aumentate…

Ti rispondo da Venezia, il Canal Grande è pieno di pantegane vere, come cantavano gli Afterhours Non si esce vivi dagli anni ’80. Non siamo morti ma quel decennio ce lo portiamo appresso, ratti compresi.

Non ho capito, però, se hanno fatto più danni le scorie radioattive oppure i neomelodici… 

I danni sono uguali, le conseguenze diverse. Le scorie radioattive purtroppo sono mortali, i neomelodici danneggiano solo il buon gusto e tolgono il piacere che ti dà la buona musica, quella vera.

Avessimo capito, allora, che ogni libro è un flauto. Ogni lettore il pifferaio magico”. Ci restano ancora Ampi Margini per poter comprendere… che le speranze le abbiamo riposte in tutto tranne che in noi stessi?

Sì, forse è andata così, almeno in parte, ma qualche speranza in noi dovremo pure averla riposta a un certo punto o non saremmo qui.

Tanto ancora avrei da chiederti ma preferisco lasciare al lettore la piacevole lettura che ci porta, inoltre, a scoprire i tanti illustri narratori che vanno dalla poetessa argentina Silvina Ocampo alla statunitense Dorothy (Dottie) Parker; dal giovane David Foster Wallace, alla maestra delle Short Stories Grace Paley e ai tanti altri “turisti” che hanno percorso le strade di Napoli. Ma concedimi una ulteriore domanda. A tuo avviso: l’Arte, e nella fattispecie la Poesia, riuscirà a renderci uomini/donne migliori?

No, di questo sono certo. No.

Porre quesiti ad un poeta/scrittore è come chiedere ad un pittore che vuol rappresentare con il suo dipinto. 

Le Poesie, così come i quadri, non sempre recano un titolo quantomeno indicativo; e perciò ognuno vi coglie, o vede, ciò che più ritiene affine al suo animo, alla sua sensibilità e/o immaginazione.

Se alcune domande vi parranno strambe ed alcuni miei passaggi strampalati allora vi consiglio di far vostro questo libro/excursus, che si lascia piacevolmente leggere dalla prima all’ultima pagina, suscitando profonde riflessioni, piacevoli emozioni e, talvolta, struggente commozione.

Lagunare. Musicale. Rimembrativo. Montieri.

Ascolto consigliato. Mina: Tra Napoli E Un Bicchiere.

filippodinardo@libero.it 

 

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