Come tutti sappiamo l’Italia è la patria dei più grandi autori che, sempre evergreen, il mondo ci invidia: li studiano, li omaggiano, li diffondono e li portano in scena.

È sconcertante rilevare come negli enti preposti, le scuole in particolar modo, poco si faccia per tramandare, divulgare e far ri-scoprire questi geni musicali che ci hanno consegnato pagine immortali, di una Bellezza senza pari.

Anche perché, salvandone ben pochi, il corpo docente, grazie al rincoglionimento globale (la vera piaga del secolo) che li ha visti proliferare, ha ben poco da insegnare.

È deprimente constatare come la classe (invisibile, in verità) politica faccia poco o nulla affinché non vada disperso questo patrimonio culturale. Non elargiscono altro che elemosine e pare quasi che non vedano l’ora di calare il sipario quando si tratta di Cultura. Ma lasciamo perdere questi ultimi, sui quali stendiamo il pietoso manto della Misericordia affinché riposino in pace, e veniamo a noi.

Ho avuto il privilegio, dopo Lucia Mazzaria, di “incontrare” un’altra Soprano di levatura stellare, le cui nuance vocali mi piace accostarle ai dipinti di Edgar Degas, che molto cortesemente ha risposto ad alcune domande: Daniela Lojarro.

La Signora della Musica, che vive in Svizzera ma italiana di nascita, ha una carriera costellata di successi in angolo del mondo; un curriculum che a riportarlo per intero ci vorrebbe una mezza giornata; ha ricoperto ruoli che a citarli tutti si esaurirebbe il serbatoio della Mont Blanc; vanta un’attività concertistica oltremodo invidiabile; ha inciso diversi Cd; ha lavorato con Direttori e Registi di chiara fama; ha interpretato numerose Opere che sono poi state trasmesse sia in Radio che in Televisione.

Non vado oltre, e vi rimando alla “Rete” per approfondire.

Ecco di cosa abbiamo parlato.

Da bambina ti accosti all’Opera Lirica e ne vieni folgorata. Ciò sta a significare che in casa questi “suoni” erano… di famiglia?

Questi “Suoni” erano familiari. Mia mamma, oltre a essere una cultrice di Opera e musica classica, dava lezioni di pianoforte. Mio padre pure era un appassionato. Non sono, però, mai stata obbligata né a studiare la musica né a seguire i miei genitori nelle loro scorribande in giro per l’Europa con i loro amici per vedere o sentire opere. A 5 anni fui folgorata dalla Turandot di G. Puccini e poi dal Macbeth di G. Verdi. Adoravo la gelida Principessa che sottopone i suoi pretendenti alle tre prove e la scena del sonnambulismo in cui Lady Macbeth cerca di cancellare le immaginarie macchie di sangue dalle sue mani. Ho imparato a leggere sui libretti d’opera e ne adottai anche il linguaggio con grande disperazione della mia famiglia che si trovava a dover spiegare a uno stupito cameriere che le “bianche larve” (definizione tratta dall’Aida di G. Verdi e riferita ai candidi abiti dei sacerdoti di Osiride) erano per me i gamberi.

Da giovanissima sei sempre con la valigia pronta, per affermarti in ogni parte del Globo. In che modo i tuoi familiari incoraggiavano quest’ascesa, incorniciata da successi e riscontri positivi sia da parte della critica specializzata che dal pubblico? Mica erano preoccupati per questa figlia in giro per il Mondo?

Ho iniziato molto presto è vero. A 19 anni ho lasciato Torino per Roma dove, dopo aver vinto un concorso per giovani cantanti lirici, ho seguito un corso di arte scenica con Franca Valeri; a 21 ho vinto due concorsi internazionali e a 22, dopo il debutto nel ruolo di Gilda nel Rigoletto di G. Verdi, sono stata catapultata sul palcoscenico del Rossini Opera Festival per una produzione con la regia di Roberto De Simone, scene e costumi di Enrico Job, accanto a Monserrat Caballè. Dopo sono seguiti a ruota Berlino: non potrò mai dimenticare l’emozione dell’immensa e magica sala dei Berliner Philharmoniker gremita di pubblico che dopo alcuni secondi di silenzio si riempì di applausi e richieste di bis, il primo violino che si alzò per farmi i complimenti… ma anche l’invidia dei colleghi che avevano ricevuto meno applausi pur essendo già più celebri di me. Queste sono state poi le costanti nella mia carriera: grandi soddisfazioni accompagnate da lotte, invidie, gelosie cattiverie. I miei genitori prima e mio marito poi mi sono sempre stati vicini, mi hanno sempre sostenuta in ogni scelta anche in quelle difficili come dire di no a certi compromessi ma, e per fortuna, sono stati anche i miei critici più accaniti: erano pronti a gioire per un successo ma lo erano altrettanto nel ricordarmi che dovevo studiare con impegno per mantenere quel livello oppure a farmi notare che la recita non era stata al livello delle altre per questa o quella ragione. Mia madre era sicuramente la più ansiosa di tutti: infatti, preferivo non vederla prima di una recita! Al contrario, io non avevo fisime di poter stare male, prendermi raffreddori o mal di gola: incoscienza? Forse! A mie spese, però, ho imparato che nessuna recita vale la salute: per salvare il teatro da situazioni spiacevoli, ho cantato con l’influenza e la febbre sottoponendomi a cortisone e a non so quale altra medicina. Dopo rimasi senza voce, non potevo nemmeno parlare, per una settimana e persi altre recite senza nemmeno un “grazie” da parte della direzione del teatro. Sicuramente, nel periodo in cui ho iniziato e svolto la mia carriera era meno pericoloso viaggiare e anche meno complicato: se penso che mi portavo, ovunque andassi, un kit di primo soccorso culinario in valigia, composto da pacco di spaghetti, sale, olio, caffè e caffettiera, … Oggi sarebbe impossibile! È chiaro che città come Seoul o Johannesburg anche allora non erano semplici da vivere per dimensioni e criminalità. Scoprire che il parco accanto all’immobile che avevo preso in affitto a Pretoria dopo le 17 del pomeriggio era infrequentabile e il primo giorno trovarsi a faccia a faccia con bande rivali che si pestano a catene e si prendono a sprangate non è il massimo ma ho avuto pessime esperienze pure a Bari per la strada: sono inconvenienti con cui abbiamo a che fare tutti … e sempre di più purtroppo.

Tra i vari tuoi insegnanti c’è stata una figura però che, più di tutti, ha lasciato un segno indelebile nell’artista Daniela Lojarro e al quale sei legata in particolar modo: il Maestro Carlo Bergonzi, uno tra i più autorevoli interpreti dell’opera verdiana. Perché?

Ci sono vari “perché”. C’è l’aspetto del cantante: come artista, mi ha commosso ed esaltato; poi, c’è l’aspetto del Maestro, o meglio del “mio” Maestro, colui che ha saputo trasmettermi lo stile del “Canto sul fiato”; infine, come uomo, è stato un padre spirituale per la sua correttezza e la sua onestà. Il Maestro Bergonzi portava nell’insegnamento tutta la carica umana che lo aveva già distinto come artista, sempre leale e diretto: instancabile, pieno di passione ed energia dalla mattina presto fino a sera tardi. Bergonzi insisteva sul verbo “perfezionare”: per trasformare la pietra grezza in un diamante bisogna lavorare con rigore, umiltà e amore. E lui, sempre con rispetto profondo per le peculiarità di ogni singolo allievo, sapeva donarti la gioia nel riuscire a emettere un suono così bello e morbido che, istintivamente, sentivi esser quello giusto. Certamente, tanto era pronto a esultare con te per una frase cantata bene era altrettanto schietto nel fustigarti per una nota non sul “fiato”. In quelle occasioni le imprecazioni emiliane echeggiavano come “All’armi” di Manrico! Il nostro rapporto Maestro/allieva è continuato anche dopo il debutto: ho “perfezionato” tutti i miei ruoli con lui. Bastava pochissimo: intuizioni che mi si svelavano grazie ai suoi sguardi e ai suoi esempi vocali. Per questo per me è stato anche un padre spirituale. C’è una frase che rappresenta più di ogni altra il suo pensiero sul canto: la regia della parola: «Note e parole, diceva, non sono mai messe a caso dal compositore. Cantare significa conferire alle note e alle parole quel colore che trasmette l’emozione e il sentimento con cui il musicista ha composto». Siamo sempre rimasti in contatto, anche quando la salute gli ha impedito di proseguire l’attività d’insegnante. Ci sentivamo al telefono, di tanto in tanto facevo una scappata a Milano per salutare lui e la signora Adele, sempre al suo fianco, inseparabile e instancabile, e facevamo lunghe chiacchierate sulle voci, la salute, la famiglia, la carriera, la politica, il teatro. Fino all’ultima volta, in occasione del suo compleanno. Ancora adesso trovo difficile raccontare dell’ultimo incontro avuto nel suo appartamento a Milano, con lui in carrozzella, tormentato dai dolori che non gli davano tregua. «Vedi, non sono più io, Lojarro», esordì vedendomi. E, quando lo abbracciai per salutarlo, con un filo di voce, ben lontana dalla sua energica e vibrante, mi disse: «Io non sono più qui: voglio solo andarmene».

Altra figura carismatica che hai citato è il Regista Ulisse Santicchi. Come mai?

Ci siamo incontrati in occasione di una produzione di Rigoletto per il circuito dei teatri veneti. Fin dalla prima prova – che fummo costretti a spostare in un salone di un hotel perché i vigili del fuoco avevano bloccato l’uso del teatro per non so quali beghe politico, amministrative, burocratiche – si trattò di un colpo di fulmine. Con Ulisse non solo ho realizzato le più belle produzioni della mia carriera ma anche abbiamo sviluppato un legame di amicizia profondo per tutto un mondo di interessi, letterari, musicali, artistici, filosofici, e un modo di vivere che definirei veramente come “affinità elettive”. Inoltre, Ulisse è stato uno dei primi lettori delle varie stesure del mio romanzo!

Debutti nel ruolo di Gilda, dal Rigoletto. Che ricordi hai di quella che è stata fin da subito la tua consacrazione?

Una serata magica di cui conservo immagini come flash. C’erano così tante persone, così tanta tensione e, soprattutto, mi pareva di schiattare per la tremenda afa della pianura Padana. Indelebile, però, nella memoria, lo sguardo del Maestro Bergonzi mentre posava la sua mano sulla mia spalla prima che salissi sul palcoscenico, montato di fronte alla statua di G. Verdi: un’occhiata e un gesto che per me furono come una sorta di “iniziazione”, come se, pur nella mia inesperienza e immaturità, fossi stata comunque accettata in una cerchia.

Tantissimi i ruoli nella tua carriera, e quasi tutti diversi. Un’ecletticità non da tutti/e. Ma qual è il personaggio che più si accosta alla tua personalità?

Ho iniziato con ruoli di giovani donne innamorate (Rosina del Barbiere di Siviglia di Rossini), pronte a sacrificarsi per l’Amore come Violetta della Traviata di Verdi; tradite (Gilda in Rigoletto), disperate per l’amante lontano come Giulietta dei Capuleti e Montecchi di Bellini, pazze come Lucia di Lammermoor nell’opera omonima di Donizetti, sonnambule per dolore come Amina della Sonnambula di Bellini; ho proseguito con ruoli più drammatici come la regina Anna Bolena che affronta il patibolo, la furente Donna Anna che cerca vendetta per il padre ucciso da Don Giovanni, la sensuale Nedda che tradisce il marito e sfida la morte per raggiungere l’amante: sinceramente nessuna di loro si accosta alla mia personalità. Però, mi hanno permesso di confrontarmi con aspetti e sfaccettature dell’animo umano, di approfondirne i lati oscuri, di sondare le capacità del cuore e le reazioni di fronte ai grandi temi che agitano il nostro “essere uomo”. Ho messo a disposizione del compositore e delle sue creature la mia voce per dar corpo al moto dell’animo che sta alla base del suo pensiero creativo e trasmetterlo a chi ascolta. Ovviamente, poi, le emozioni personali, la nostra vita riaffiora anche in palcoscenico e si infiltra, si nasconde nelle pieghe dei personaggi anche a nostra insaputa!

Non è possibile elencare i Direttori d’Orchestra con cui ha lavorato: ce n’è qualcuno che più degli altri emanava una sorta di magia umana?

Ho amato in particolare Marcello Viotti e Angelo Campori: due direttori con cui si lavorava a lungo in sala, soffermandosi su ogni frase, su ogni sfumatura, su ogni parola. Nel corso delle recite, poi, li sentivo sempre presenti e pronti a sostenermi perfino quando cantavo di spalle al pubblico o quando malauguratamente non stavo bene di salute.

Così come i Registi, tra cui Roberto De Simone. Ma con chi, tra loro, si è subito istaurato un feeling, lavorativo, particolare?

A parte Ulisse Santicchi di cui ho parlato prima, si è creata una collaborazione artistica fondamentale con George Delnon, il regista con cui ho “costruito” passo dopo passo il ruolo di Lucia di Lammermoor e da cui ho imparato moltissimo dal punto di vista tecnico. Anche con Dieter Kaegi ho avuto un’esperienza artistica molto bella durante le produzioni di Falstaff, Pagliacci e Rigoletto: sono grata ad ognuno di loro per la ricchezza dello scambio artistico e anche dell’amicizia.

Come dicevamo, non si contano i personaggi che hai interpretato. Uno tra tutti, su cui vorrei soffermarmi, è Lakmé, di Leo Délibes. Il celebre Duetto Dei Fiori, tra Lakmé e Mallika, è uno tra i più impegnativi di tutta l’opera del compositore francese. Puoi rievocarmi questa pagina prestigiosa ma difficoltosa allo stesso tempo.

Il duetto dei fiori della Lakmé è molto delicato: dal punto di vista tecnico occorre tenere la voce soave e leggera ma, al tempo stesso, mantenere un timbro caldo e pastoso per non cadere nello stucchevole. Musicalmente si ripete quasi identico tre volte: è necessario nel porgerlo al pubblico trovare per ogni ripetizione nuove sfumature e accenti, sempre senza “tradire” il dettato musicale. L’ultima ripetizione, poi, è la più difficile: il compositore prescrive la parte vocale in pianissimo, quasi un sogno, e le due donne si stanno allontanando dalla scena: bisogna mantenere il contatto con il direttore d’orchestra, con l’altra cantante, l’intonazione corretta mentre si cammina simulando l’intenzione di passeggiare e raccogliere fiori mentre si esce di scena. Si tratta di un momento di serenità per la protagonista che teme per la vita del padre, un bramino che aspira a liberare l’India dall’occupazione inglese e, per questa ragione, costretto a nascondersi. Lakmé, inoltre, come sacerdotessa consacrata, non dovrebbe conoscere l’amore carnale ma ha scorto un uomo: sta provando sentimenti nuovi e contrastanti che sa di non poter confessare a nessuno nemmeno alla sua domestica. La fedele donna, però, si accorge dei turbamenti di Lakmè e la invita a passeggiare e raccogliere fiori.

Alcuni tuoi brani, tratti dal Rigoletto, hanno fatto da tappeto sonoro al film di Mary Harron: I Shot Andy Warhol (Ho Sparato A Andy Warhol). Mi intriga sapere come si è arrivati a questa commistione della Lirica con la vita del re della Pop Art.

Non posso risponderti con precisione perché si tratta di scelte operate dalla produzione di cui io ero assolutamente ignara. Penso si sia trattato di un voluto contrasto tra l’aria di Gilda in cui la giovane donna sogna e gorgheggia sul nome del suo amante con l’impostazione registica che accentua i lati sordidi della vicenda.

Hai inciso diversi Cd; uno di questi è: Ermione, di Gioacchino Rossini. Con te c’erano Monserrat Caballé e Marylin Horne. Raccontami…

Due “mostri sacri” come si dice in gergo! Due dive ma con un modo opposto di porsi con i colleghi e con il pubblico. La Horne era sicuramente una perfezionista, preparata minuziosamente ma che esigeva che tutto girasse attorno a lei: controllava perfino luci e posizioni per essere certa di avere il giusto risalto. Era pronta a uno scontro anche molto duro se non era d’accordo con direttore e regista. Ovviamente era il suo atteggiamento negli ultimi anni di carriera quando ci teneva a lasciare un ricordo non appannato della sua arte in confronto soprattutto con se stessa. Non ho mai visto, invece, la Caballè arrabbiarsi: se qualcosa nei costumi, nella disposizione scenica o dal punto di vista musicale non le andava a genio, buttava tutto sul ridere. Ricordo che le veniva un lampo particolare negli occhi e poi, sorridendo o ridacchiando, diceva che non era colpa degli altri ma sua perché lei non era più così in forma o così brava. Però, nel momento stesso in cui lo diceva, chi era di fronte capiva benissimo che non era disposta a cedere ma era così affascinante e così amabile che non le si poteva rifiutare nulla. Perfino durante la ripresa TV live di Ermione, mentre io cantavo e lei dava di spalle al pubblico, nel bel mezzo di una scena tragica, riusciva a fare battute anche pesantemente ironiche su se stessa. Poi, si girava, iniziava a cantare e uno stava a bocca aperta a sentire quei suoni di una bellezza unica. Entrambe non erano più al top della loro forma vocale ma si sentiva la personalità, la preparazione e la tecnica che sorreggevano il mezzo vocale non più intatto. Certi atteggiamenti divistici fanno parte del palcoscenico: in fondo, anche il pubblico si aspetta ed esige certe stravaganze dai suoi idoli.

Si dice che con la Cultura o con l’Arte, di qualsiasi genere, non si mangia. Credo che questo dipenda dall’enorme “paccottiglia” che si trova in giro, e soprattutto che nelle scuole non si faccia, restando in ambito musicale, una corretta in-formazione riguardo ai Maestri che hanno scritto le più belle pagine della Lirica e dell’Opera mondiale. Ecco: come fare, oggi, a distinguere un semplice cantante da un vero talento? Pare che il successo dipenda più dalle “indicazioni” che ci propinano, che dal saper, davvero, distinguere chi abbia la cosiddetta stoffa.

Concordo pienamente e, soprattutto, trovo che quest’atteggiamento non riguardi solo esclusivamente l’opera o la musica classica ma in generale qualsiasi ambito artistico cinematografico o letterario. Si scambia la popolarità, acquisita con una massiccia presenza sui media tramite mirate campagne pubblicitarie, con il talento o l’opera d’arte. Nella massificazione in cui viviamo, la cultura possiede una forza caratterizzante troppo “eccessiva”: si deve essere “uguali”, c’è atrofia del pensiero o, come diceva Ennio Flaiano, si deve stare nell’”infinitamente medio”. La cultura ha bisogno di anni di frequentazione, di pensieri, di riflessioni, è faticosa da perseguire ed è immensa oltre che in continua evoluzione; al giorno d’oggi, la società sguazza nell’inerzia, nell’indifferenza: si creano bisogni infiniti per farci concentrare sull’effimero, sul frivolo. La cultura che, al contrario, sviluppa il gusto, crea coscienza, e non solo artistica, presenta soluzioni che vengono dalla storia del nostro pensiero indicandoci comportamenti, valutazioni offrendoci scelte alternative DEVE essere evitata. Non bisogna riflettere ma accettare quello che suggeriscono gli “esperti”. Guardiamo quante strane figure affollano giornali o trasmissioni: una folla di opinionisti che offrono pensieri confezionati, brevi e pubblicabili velocemente su facebook o twittati. Altro aspetto da non sottovalutare è che la nostra mentalità rifiuta l’emotività, l’irrazionalità, l’immaterialità: ne ha una paura folle ma questi sono i “territori” esplorati dall’arte.

A chi vorrebbe accostarsi, magari per la prima volta, alla Musica Classica, alla Lirica, alle Opere cosa suggerisci? C’è un “sistema” per approcciarsi a questi generi musicali? Ti chiedo ciò poiché, mentre un giovane che si reca ad un concerto di musica pop, di un qualsiasi cantante, può seguire, capire -e cantare a sua volta- ciò che sta ascoltando, viceversa, per queste liriche, soprattutto in Tv, occorrono i sottotitoli e/o i libretti. Si crea così una sorta di élite musicale che può non dico “spaventare” ma quantomeno far desistere il neofita che vorrebbe porsi all’ascolto. Manca la giusta e dovuta “educazione”?

Quando fin da scuola ti inculcano l’idea che l’Opera o la musica classica sono polverose, rappresentano una cultura reazionaria e mummificata… non si può pretendere che poi ci si avvicini senza preclusioni ad altri generi che non siano il classico tormentone estivo. Si ritorna al discorso di prima: si vuole tutto subito e senza fatica. Si può fare lo stesso discorso riguardo all’uso della lingua italiana: il vocabolario dei giovani consta al massimo di 800 parole. Non si tratta di inserire la seconda lingua alle elementari, non si tratta di creare master in neurolinguistica o scrittura creativa: bisogna pretendere dalla scuola le basi per potersi sviluppare con intelligenza e creatività ma ci si deve ovviamente impegnare, sforzarsi per uscire dall’inerzia. E questo vale per la musica come per la vita di tutti i giorni. Finché ci si adagia nel pensiero unico non si capirà mai che per accostarsi alla musica o all’opera o a un quadro piuttosto che a una scultura non c’è una ricetta unica.

Diceva sant’Agostino: Chi canta prega due volte. Il canto, in ogni sua accezione ed inteso come primo suono, è una forma di catarsi, di purificazione? In altre parole: il bel canto ci accosta all’Infinito?

Ogni forma d’arte nella sua non quantificabile Bellezza ci avvicina all’Infinito. Io privilegio il mondo sonoro ma secondo me non ci sono vie migliori o più giuste. M’immagino un cerchio: i raggi che si possono tracciare dalla circonferenza al centro sono infiniti e tutti hanno la stessa lunghezza. Così sono le diverse vie che conducono all’Infinito. Sicuramente il suono ha un aspetto “magico” che troviamo fin nelle più antiche tradizioni umane: l’aspetto immateriale non visibile. In moltissime tradizioni si parla della Vibrazione, cioè un suono che precede qualsiasi parola articolata, determinata e legata a un concetto logico, che ha generato il mondo. Per esempio, nella tradizione cristiana, il Vangelo di San Giovanni inizia così: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Per gli antichi egizi, fu «il grido o la risata» del dio Thot a creare l’universo. La tradizione vedica dell’India, i cui testi, le Upanishad, appartengono all’infanzia dell’umanità, inizia così: «All’inizio c’era il nulla poiché tutto era ravvolto nella morte. Questa, desiderando un corpo, si mise a cantare: dalla sillaba mistica nacque il cosmo e dalle nozze del suono con il tempo scaturì la musica». Il canto della morte è l’atto creativo da cui si sprigiona la vita; la dimora della morte è la tenebra della notte o la caverna, la bocca che tutto inghiotte per risputarlo in forma ringiovanita: immagine di una poesia e di una potenza evocatrice fortissima.

Le tue letture spaziano dai classici di ogni nazione all’esoterico René Guénon, passando da Zoroastro ai testi Sufi e non solo. Quanto hanno inciso sulla tua formazione umana?

Moltissimo. Non vedo la personalità, o se vogliamo l’Uomo, come suddiviso in settori a tenuta stagna. Non amo la cultura fine a se stessa o il suo sfoggio: la conoscenza deve compenetrare ogni attimo della nostra vita, ogni sfaccettatura del nostro modo di porsi e di essere. Non mi ritengo né idealista né sognatrice, soprattutto alla mia età; ma impegno nel sociale, responsabilità nei confronti del prossimo, lealtà e chiarezza nei legami di qualunque genere, impegno civile, rispetto e tolleranza restano per me alla base della possibilità per l’uomo, anche della nostra epoca, di svilupparsi … E per sviluppo non intendo quello tecnologico che dovrebbe essere solo un mezzo non un fine da perseguire. Su questo si fondano le scelte della mia vita che non distinguo in quotidiana e artistica: è la mia vita nella complessità delle sue sfaccettature.

Troviamo nelle librerie il tuo primo libro: Il Suono Sacro Di Arjiam (Edigiò Editore – Collana Le Giraffe). La scrittura, come la voce, per continuare a regalare emozioni?

Piccola correzione tecnica: il contratto con Edigiò è scaduto. Il romanzo è uscito suddiviso in due parti (Fahryon, Il Risveglio di Fahryon – saga del Suono Sacro di Arjiam) da alcuni mesi in versione digitale per GDS. Fahryon dal 1 Febbraio è disponibile su ordinazione anche in cartaceo. Musica e scrittura per regalare emozioni? Sì, senza dubbio. Entrambe nascono dall’ascolto, dall’impulso e dal desiderio di comunicare/rsi. Come ho già accennato prima, cantare, per me, è cercare di conferire alle note quel colore che possa trasmettere il movimento dell’animo che sta alla base del pensiero creativo del compositore a chi ascolta. Scrivere è cercare la parola, fra tutte quelle che usiamo abitualmente nelle relazioni sociali, capace di suscitare nel lettore la vibrazione legata all’emozione come se la stesse vivendo o rivivendo. Per questo si tratta di un lavoro di rifinitura e di tensione (nel senso del divenire del tendere a qualcosa) fino a che non ho trovato la risonanza che mi pare più consona, l’accordo che fa vibrare che mette in risonanza scrittore e lettore.

La canzone napoletana classica, in alcuni suoi brani, ha usato le allegorie per quelli che oggi definiremo messaggi subliminali. Anche il genere Fantasy possiamo intenderlo come metafora?

Certamente! Il fantasy è un genere letterario in cui gli elementi dominanti sono il soprannaturale, l’allegoria, il simbolo e il surreale. Si è sviluppato nella seconda metà dell’800 ma vanta illustri antenati: basta pensare al bagaglio di miti e leggende di ogni popolo, riconducibile a eventi sovrannaturali o ad atti eroici impossibili, allegorie della lotta tra bene e male. D’altra parte il fantasy classico, come del resto l’espressione artistica in generale, non è solo una lettura d’evasione. L’arte ha da sempre un effetto catartico: il lettore o lo spettatore, identificandosi con il protagonista, partecipa delle sue emozioni, dei suoi dolori, delle sue gioie, vivendo le sue avventure, le sue scoperte, i momenti tristi e lieti traendone spunti di riflessione su se stesso e sulla società, maturando. Ogni storia, ogni mito, ogni favola tratta dell’umanità e dei suoi problemi universali, offre esempi di soluzione delle difficoltà in un linguaggio che arriva direttamente oltre ogni barriera logica. E non si tratta di una fuga dalla realtà: appartengono all’uomo fin dalla notte dei tempi. I primi strumenti musicali (o anche le prime pitture) che si conoscono risalgono a 37.000 anni fa: si tratta di flauti ricavati da ossa di animali dotati di ben tre buchi che permettono di modulare diversi suoni. In un’epoca in cui le condizioni di sopravvivenza non erano né favorevoli né semplici, l’uomo ha sentito il bisogno di riprodurre suoni ancora prima di essere in grado di accendere un fuoco: infatti, il primo acciarino risale a 32.000 anni fa. L’espressione artistica è un bisogno, e attraverso di essa si possono combattere battaglie, trasmettere conoscenze, emozioni, spingere alla riflessione.

Leggendo quanto hai già dichiarato a proposito, sono stato colpito da questo pensiero: “Questa è l’idea del Suono Sacro che ho sviluppato nel mio romanzo: un’Unità che concilia in Se Morte e Vita, Suono e Silenzio, Luce e Oscurità”. Sembrano connubi antitetici ma in realtà: non c’è la Vera Vita se non dopo la fine del corpo; non vi è Suono che non scaturisca dal Silenzio, non ci sarà mai un’Oscurità che non sia poi rischiarata dalla Luce. È così?

Il Suono di Arjiam è il Principio Creatore che origina l’Universo e lo anima con la sua energia e vibrazione. È il Suono che non è mai stato emesso quindi è Sacro. Sono partita dall’immagine vedica che ho citato prima: il canto della morte è l’atto creativo da cui si sprigiona la vita. Nel romanzo la dualità, in realtà, è una condizione cagionata dalla mancanza di equilibrio nei “desideri” dell’uomo. Il Suono Sacro è l’Unità in cui tutti gli opposti si annullano. Il cammino, la missione, il compito dell’uomo, chiamalo come preferisci, consiste appunto nel ricercare tramite il viaggio dentro se stesso l’Unità. Non ci sono due princìpi creatori ma uno solo: dipende da noi ritornare all’Unità originaria e cercare di di-svelarla, ri-stabilirla, per quanto è possibile nella condizione umana che però è sempre in divenire.

Puoi dirmi cosa rappresenta per te il Suono Sacro? Te lo chiedo in quanto stavo pensando che alcune persone, dopo il risveglio da un coma, affermano di aver sentito dei suoni celestiali che non sono riproducibili con i nostri strumenti terreni. Trovi una connessione tra il tuo pensiero e queste dichiarazioni?

Sì, certo. Credo che la forma o stato o condizione Unitaria sia una forma di energia e quindi di vibrazione sicuramente non rappresentabile con parole o immagini umane. Infatti, anche nel romanzo è un pensiero che torna ed è espresso più volte durante i “contatti” tra i saggi Magh e il Suono Sacro. Per esempio dice Tyrnahan alla neofita Fahryon proprio in occasione della prima visione: “Non avere paura e abbandonati alla Sua Vibrazione e scoprirai che, al di là di quello che il tuo corpo percepisce come dolore fisico, esiste un mondo di suoni la cui perfezione nessun orecchio umano o mente umani possano intendere”.

Sessanta strumenti musicali che vibrano all’unisono creano un’armonia. Sessanta persone che parlano contemporaneamente producono solo caos. Sembra che non ci sia più voglia, tantomeno tempo, per porsi all’ascolto dell’altro. Ci stiamo “inglobando” in maniera irreversibile?

L’ascolto è tendersi verso l’altro. Tutto ci porta, al contrario, a prevaricare sul prossimo anche semplicemente urlando per impedirgli di parlare o di esprimersi. Sessanta persone che suonano o cantano insieme accettano di porsi in relazione uno con l’altro e, implicitamente, accettano anche l’autorità del direttore d’orchestra o, se si vuole, come Primus inter Pares: il direttore d’orchestra può agitare la bacchetta finché vuole ma senza la rotella del flauto o del percussionista non arriva all’esecuzione di un brano. È scientificamente provato che le onde cerebrali dei musicisti di un’orchestra si “armonizzano” quando stanno suonando insieme. Se non si accetta questa “visione” nella vita, si produce appunto caos.

Socrate invitava i suoi discepoli a conoscere se stessi. Oggi, come non mai, è molto più di moda impicciarsi degli affari altrui piuttosto che intraprendere un’immersione introspettiva, che potrebbe svelarci chi realmente siamo. C’è, a tuo avviso, una sorta di ancestrale paura nel non voler comprendere quale sia la nostra vera identità?

Oggi siamo subissati da inviti a praticare meditazione, a frequentare corsi di introspezione per cercare se stessi o per essere “felici”, a cimentarci con ogni genere di filosofia per star bene con noi stessi o addirittura s’iniziano infinite terapie psicologiche o pseudo tali In realtà, non si vive questa ricerca interiore ma la si confina a determinati orari come se fosse uno sport. Si ritorna sempre al discorso già fatto per la conoscenza e la cultura: la ricerca implica uno sforzo, anche delle sconfitte e non accetta orari. Non è paura ma superficialità, distacco e scissione da una visione unitaria di Uomo e Natura: l’uomo moderno non fa che allontanarsi dal Centro e nascondersi. I nostri progenitori affrontavano prove per entrare nell’età adulta; noi evitiamo addirittura di crescere e temiamo addirittura la vecchiaia: cerchiamo in tutti i modi di mantenerci nello stato infantile o adolescenziale appagando subito ogni necessità materiale e psicologica. I media hanno addirittura ridotto la morte a spettacolo se non a gioco: gli esempi di giovani che non distinguono più la vita da un video-gioco o da un film non si contano più.

Confesso che tutte le mattine all’alba e prima d’ogni altra cosa, indosso le cuffie per pormi all’ascolto di Musica, soprattutto il Blues che ritengo più affine alla mia indole, per effettuare quello che definisco il nutrimento dell’Anima. Una Terapia per me essenziale, senza la quale non inizio la giornata, e quando posso non manco di barattare la televisione con le sette note. Leggo che tu sei una Musicoterapeuta che si avvale del metodo Audio-Psico-Fonologico del nizzardo Dr. Alfred Tomatis per “trattare” chi si rivolge alle tue cure, se posso esprimermi in questo modo. Di cosa si tratta esattamente, e chi sono i soggetti che possono avvalersi di questi interventi pedagogici?

Alfred Tomatis è stato uno dei primi medici negli anni ’50 a intuire l’importanza della stimolazione acustica sonora musicale per il nostro cervello. Alcune sue intuizioni tratte dalla pratica clinica sono state poi confermate dalla neurologia, altre sono cadute: il metodo si è quindi sviluppato e arricchito. Il nostro cervello elabora le informazioni che le “orecchie” gli inviano costantemente perfino quando dormiamo: nel corso di questa elaborazione, che avviene in millisecondi, possono crearsi dei blocchi che ritardano la risposta se non addirittura la fermano. Questo succede a livello della lingua e non solo musicale: vocali e consonanti sono suoni costituiti da frequenze, onde, che si misurano in Hertz. Tramite un apparecchio, chiamato Orecchio Elettronico, invio della musica al soggetto che la sente in cuffia: lo stimolo sonoro è però elaborato. Di un brano musicale imposto le frequenze che desidero che il soggetto ascolti: le basse frequenze stimolano il corpo e il movimento; le frequenze medie aiutano la concentrazione; le frequenze acute stimolano la creatività e riducono lo stress e i sintomi che lo accompagnano. Inoltre, le frequenze scelte sono percepite dal soggetto con ritardo tra la conduzione ossea (cioè come le nostre ossa vibrando trasmettono il suono al cervello) e quella aerea (cioè come il suono facendo vibrare il timpano, l’orecchio medio e interno arriva poi al cervello): questa differenza, calcolata in millisecondi e che io posso cambiare, non è percepita coscientemente ma il nostro cervello la registra a nostra insaputa, è costretto a reagire e ad attivarsi svegliando la nostra attenzione portandoci a “allungare le orecchie”. Questo effetto è paragonabile alla Mismatch Negativity (MMN) studiata nell’ambito delle neuroscienze cognitive e della psicologia: chi fosse interessato può leggere anche su Wikipedia una buona spiegazione. Si rivolgono a me soggetti con difficoltà o ritardo di sviluppo della lingua, per esempio dislessici; difficoltà a leggere, a scrivere, a concentrarsi, a memorizzare. L’orecchio è anche il centro dell’equilibrio: quindi, la stimolazione serve pure per la coordinazione o problemi di equilibrio. Da non sottovalutare il sollievo in caso di tinnitus, il fastidioso fischio di cui ancora oggi non si conoscono le cause e non esistono rimedi efficaci al 100%. In campo musicale, la stimolazione serve a migliorare l’intonazione, la musicalità, l’espressività. Questa fase “passiva” di ascolto è integrata da esercizi di vario tipo secondo il problema: ripetizione di vocali, sillabe, parole inventate, canto, lettura ad alta voce, giochi di coordinazione, esercizi di respiro, disegno…

 Per concludere. Se ti chiedo cosa bolla in pentola, che mi rispondi?

Un nuovo episodio della saga del Suono Sacro di Arjiam con nuovi personaggi, nuove terre, popoli scomparsi e culti dimenticati. Il centro dell’azione non sarà più solo il regno di Arjiam ma anche il regno dei millenari nemici: Bahvjimaar. Cosa nascerà dall’incontro? O sarà uno scontro? Chissà!

Ringrazio infinitamente Daniela Lojarro –che tra le sue radici familiari annovera anche ascendenze partenopee- per questa intensa conversazione nella quale ha aperto lo scrigno dei ricordi della sua luminosa carriera, ci ha offerto uno spaccato della sua vita privata, e ci ha portati alla conoscenza di un’Artista che racchiude in sé l’essenza tra l’Essere Umano e la Natura; un binomio che, nonostante gli svariati percorsi introspettivi che si rincorrono, stenta a concretizzarsi.

E certamente non è colpa di ciò che abbiamo ereditato e che stiamo “allegramente” distruggendo.

Ed in particolar modo, tra le varie tematiche sviscerate che ci hanno mostrato una scrittrice di vaglia ed una professionista terapeuta di alto profilo e soprattutto una Donna dai valori mai demodé, se siete arrivati quaggiù in fondo sicuramente vi siete resi conto che nell’ambito classico per eccellenza (così come in altri contesti artistici, sia chiaro) è incontrovertibile che le arie molti le interpretano, ma tantissimi altri/e… se le danno.

filippodinardo@libero.it

Daniela Lojarro - Fahryon 1 - 2

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